Calcio
Onora il padre e la madre, Sacchi e l’intensità
I dieci comandamenti nel calcio - 4
di Mimmo Carratelli
(da: Guerin Sportivo )
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Molte scritture e gli evangelisti più accreditati della rivoluzione culturale degli anni Ottanta indicano in Arrigo Sacchi il padre del calcio moderno e nell’intensità la madre. Fu dopo l’apparizione nel cielo di Milano che il romagnolo di Fusignano (Ravenna) impose il quarto comandamento: onora il padre e la madre.
Arrigo Sacchi aveva un faccino da anacoreta e due piccoli occhi spiritati. Sotto le provvisorie spoglie di agiato venditore di scarpe aveva girato l’Europa e studiato da vicino le più affermate filosofie calcistiche del continente traendone una filosofia personale e rivoluzionaria che mise in pratica nelle prime prove d’orchestra al suo paese.
I dottori della chiesa sacchiana riferiscono questa prima frase antologica di Arrigo: “Il mio calcio è come un concerto e il ruolo dell’allenatore è molto simile a quello di un direttore d’orchestra. Se ha a disposizione grandi solisti e buoni orchestrali, il risultato è eccellente. Ma senza lo spartito dell’allenatore direttore d’orchestra, senza il filone musicale da eseguire, sarà impossibile tenere qualsiasi tipo di concerto calcistico”. Durante l’umile ma severo apprendistato, ordinò ai suoi primi discepoli, i giocatori del Fusignano, di sdraiarsi sull’erba dello stadio facendogli ascoltare musica perché potessero eseguire i concertini della domenica. Non dormì alla vigilia della prima partita importante, novello principe di Condè, e il suo Fusignano battè con un memorabile 2-0 il Sant’Alberto.
Passando per Parma arrivò a Milano dove celò il suo sguardo ardente dietro un paio di occhiali neri che divennero famosi. Mise la prima pietra del suo magistero proclamando: “L’andazzo è finito”. E promise lacrime, sangue, lavoro, intensità, sacrifici, schemi e collettivo. Niente fu più come prima. Il padre del calcio moderno si presentò così: “Sono una persona che per avere successo deve fare fatica. Sono impaziente, a volte presuntuoso ma per troppo amore. Il calcio per me è una missione”. Ai discepoli più fedeli confessò: “Nei miei sogni c’è una squadra che giochi sempre bene e uno stadio pieno di bambini”.
Sull’intensità non fece sconti. Lui era il padre e l’intensità la madre del nuovo calcio. I genitori non ammisero che i figli crescessero viziosi, pigri, egoisti, perditempo e fuori dal coro e dalla classe (i fuoriclasse). Arrigo eresse a Milanello la sua basilica. Essa era frequentata da cattolici, calvinisti, ortodossi e luterani.
Fra gli ortodossi si segnalarono Franco Baresi, eletto subito a sacrestano per suonare le campane della difesa ad ogni attacco nemico, Roberto Donadoni il buono, Alberigo Evani nel ruolo di perpetua tutto dedizione e sacrificio, e Daniele Massaro, un discolo subito ammansito.
Cattolici potevano considerarsi Carlo Ancelotti, grande, grosso e pio, Angelo Colombo, un biondino molto servizievole, e Paolo Maldini, irto come uno stendardo da processione, destinato a lunga vita. Era sicuramente calvinista Pietro Paolo Virdis, scarno ed elegante frutto della terra sarda. Ruud Gullit, originario del Suriname, sull’Atlantico a nord del Brasile, era di religione rasta con apposita capigliatura poi contenuta in deliziose treccine.
Marco Van Basten, pur essendo nato a Utrecht, la capitale del cattolicesimo olandese, alto e forte a somiglianza della torre del duomo di Utrecht che svetta a 112 metri, non era per niente cattolico, ma piuttosto un seguace segreto di Martin Lutero. Era convinto che il calcio fosse un dono di Dio e che a nulla valessero gli schemi per guadagnare il gol e la salvezza. Perciò fu portato a negare l’autorità del padre e l’infallibilità dell’intensità. Se ne convinse il giorno dopo avere sentito Arrigo proclamare: “I leader della squadra non devono essere Baresi e Van Basten. Il leader deve essere il gioco”.
Quelli furono i giorni in cui il padre Sacchi e la madre intensità non furono onorati. Fedele alla sua filosofia rivoluzionaria, Arrigo aggiunse una precisa allegoria: “Se il tenore canta solo per esaltare se stesso, è un tenore banale, non funziona e io non lo voglio”. E fece un esempio diretto a nuora perché suocera intendesse: “Baggio, per esempio, è grande, però non è indispensabile, conta la squadra”.
Ritenendosi la suocera della parabola che doveva intendere, Marco Van Basten mise il muso, offese madre intensità e litigò con padre Arrigo. Fu lo scandalo del 1991 quando pare che il genitore contrastato si rivolgesse così al Padreterno: “O via io, o via lui”. Lui, Marco Van Basten il Cigno, rimase e andò via Arrigo. Così vanno le cose del mondo e così andarono a Milanello.
L’uomo che aveva rivoluzionato il calcio, traendolo dalle nebbie dell’empirismo e dell’improvvisazione per innalzarlo ai vertici della programmazione, di una revisione profonda, dell’apprendimento e dell’assimilazione degli schemi e dei movimenti, zona, pressing, movimento senza palla, squadra corta, diagonale, tagli, incroci e sovrapposizioni, e tutti figli di mamma intensità, proseguì altrove il suo magistero. Ma sottratto a una squadra di club e assegnato alla sfuggente formazione nazionale non ebbe più la possibilità di un insegnamento intenso e costante.
Così vennero messo in discussione il padre e la madre del calcio nuovo, additati a genitori impossibili, lui padre oppressivo e di troppe pretese, lei, l’intensità, decisamente insopportabile mentre si affacciavano le tentazioni del calcio post-moderno, dagli sponsor esigenti alle veline esigentissime, più la trappola notturna dell’”Hollywood” di corso Como a Milano, traguardo notturno delle fughe dal centrocampo, delle più pericolose fluidificazioni dalla difesa e area di poco rigore per attaccanti maliziosi.
Ad Arrigo rimasero fedeli nei secoli tutti gli amici di Fusignano, l’edicolante Maurizio Bondani, il fruttivendolo Paolo Zaffagnini, il ristoratore Franco Soncini, il parroco don Andigeri, in pratica i suoi apostoli, e il monsignore calabrese Tarcisio Cortese lo elesse cristiano dell’anno perché era un cuore buono sotto la scorza della superbia footbalistica. In tempi più pacati riconobbe che “il pallone non è rotondo, se lo colpisce Platini è rotondo, se lo prendo a calci io è quadrato”. Ma non sconfessò mai la sua filosofia personale e rivoluzionaria contro cui si schierò il 58 per cento della popolazione italiana, sobillata dagli aruspici del qualunquismo e dai fannulloni dei giri di campo. In nazionale predicò inutilmente a 93 giocatori, moltissimi di poca fede e scarso lignaggio, e riconobbe: “Solo a Gesù è riuscita la moltiplicazione dei pani e dei pesci”.
Si sentì male a Varese, tornando alla guida del Parma, la culla del suo successo, e smise di farsi largo tra i reprobi, i contrari e gli invidiosi. Emigrò, tornò. Marcello Lippi, col veleno crudele del viareggino che è, sentenziò: “Il sacchismo è finito”. I fedeli di Arrigo protestarono: “Il sacchismo è immortale come i Beatles”.
Lui aprì la bella villa di Fusignano, dove andò a vivere tra numerosi trofei, e raccontò la sua lunga storia di padre del calcio nuovo e della madre intensità che nessuno volle più onorare come impone il quarto comandamento. La domenica mattina, prima di recarsi al “Bagno Perla Blue”e poi al ristorante “Caminetto”, andava a messa nella chiesa Stella Maris e da lì perdonò tutti.