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La favola di Maradona
La sua storia a puntate - 28
di Mimmo Carratelli
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Sono cadute tutte le “grandi”. L’Italia è uscita negli ottavi di finale. Il Brasile di Socrates, Alemao e Careca ha terminato la corsa nei quarti ai rigori, non c’è più l’Inghilterra del cannoniere Lineker, non c’è più l’Urss, non c’è più la Spagna di Butragueno, l’avvoltoio. La finale mondiale 1986 è Argentina-Germania, 29 giugno, domenica. Allo stadio Azteca. 115mila spettatori.
I tedeschi del ct Beckenbauer hanno giocato un girone sofferto: pari con l’Uruguay, vittoria sulla Scozia, sconfitta con la Danimarca. Negli ottavi hanno battuto il Marocco con un gol di Matthaeus. Nei quarti hanno vinto ai rigori contro il Messico e, in semifinale, hanno fatto fuori la Francia di Platini. Sono tosti.
In finale schierano: Schumacher; Berthold, Briegel; Eder, Foerster, Jacobs; Brehme, Matthaeus, Rummenigge, Magath, Allofs. Col terzino Brehme all’ala destra promettono di chiudere tutti i varchi. Devono imprigionare la tua magia.
Bilardo manda in campo questa Argentina: Pumpido; Cuciuffo, Olarticoechea; Batista, Ruggeri, Brown; Burruchaga, Giusti, Enrique, Maradona, Valdano.
Hola, Diego. Novanta minuti al titolo di campione del mondo, così vicino, così angoscioso. Una finale è una partita senza scampo. Gol e scaramanzie hanno funzionato sinora. Rispettato e ripetuto il cerimoniale dopo la prima vittoria: shopping ai Magazzini Perisur, passeggiate col Negro Galindez che canta un bolero, visita al ristorante “Mi Viejo” del grassone che giocava con Bilardo nell’Estudiantes.
Il tuo cuore batte, Diego. I tedeschi hanno una brutta maglia verde. Guardi il cielo, ti fai il segno della croce. Vamos. E’ mezzogiorno a Città di Messico, le venti in Italia, a Napoli c’è un silenzio immenso, tutti davanti ai televisori, fosforescenze blu dietro i vetri delle case.
Come annunciato, il piccolo e tenace Matthaeus, di un anno più giovane, ti monta la guardia. Così ha deciso Kaiser Franz. Briegel ti ha già marcato cinque volte ed è stata dura per te, pibe. Ma stavolta Briegel deve “fluidificare”, spingere sulla fascia sinistra, non deve sacrificarsi più e, infatti, fa il matto. Il sacrificio è tutto di Matthaeus. E su Briegel deve dannarsi Valdano a non lasciarlo andare.
Il campo è il fondo di un vulcano variopinto. La partita è lenta e accorta. I messicani fischiano. Dove sei, Dieguito? Rintanato, quasi in ombra, prigioniero di una emozione grande e di una partita a scacchi. Nessuno vuole sbagliare la prima mossa. Protesti per una punizione che l’arbitro brasiliano Arppi Filho fa battere due volte ai tedeschi. Vedi il cartellino giallo, abbassi la testa. Il match è un blocco di ghiaccio che non si scioglie. Non s’indovina quale sarà la mossa vincente se non liberi il genio dalla lampada. Tocchetti, cerchi la posizione e Matthaeus non ti molla.
Quando va così, è un errore che rompe l’attesa. Ed ecco Schumacher che, sulla punizione-cross dalla destra di Burruchaga, il grande protagonista di questa finale, fa il cacciatore di farfalle, sbaglia il tempo e manca il pallone che il vecchio Brown, 30 anni, “el Tata Brown”, il babbo Brown, il sostituto di Passerella, di testa devia in rete. Il “libero” è venuto improvvisamente avanti e i tedeschi si sono dimenticati di marcarlo. Mamita mia, stiamo ganando. L’urlo di Napoli non puoi sentirlo.
Intervallo, cuori sospesi, sguardi febbrili. In campo, però, più leggeri. E raddoppio immediato. L’inesauribile Enrique conquista e rilancia palloni. Uno l’affida a Jorge Valdano che scatta e, stavolta, Schumacher non ha colpe, è infilato senza misericordia. Mamita, mamita. Il secondo urlo di Napoli puoi immaginarlo?
Manca mezz’ora alla fine della partita. Due a zero, che cosa può cambiare? La Coppa è là che ti aspetta. E’ ai bordi del campo. Brilla come una stella. La guardi. E il destino deve ancora compiersi. E sarà tutto una sorpresa e una sofferenza.
Continua
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