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Quei due salvataggi che portarono il Napoli in serie A
di Mimmo Carratelli
(da: Roma dell'1.06.2020)
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Giorgio Ascarelli, presidente dell’Internaples, decise che era giunto il momento che Napoli avesse una squadra col nome della città e ne fosse in tutto degna.
In Campania c’erano già il Savoia di Torre Annunziata (fondato nel 1908), giunto nel 1924 a un passo dal titolo italiano, battuto in finale dal Genoa, la Puteolana (1902), la Nocerina (1910), lo Stabia (1911), l’Avellino (1912), la Salernitana e la Cavese (1919), la Bagnolese (1920).
Nel resto d’Italia giocavano il Genoa (1893), l’Andrea Doria (1895), la Juventus (1897), il Palermo (1898), il Milan (1899), la Lazio (1900), il Torino (1906), l’Inter e il Bari (1908), il Bologna (1909) per citare i club più famosi. Mancavano all’appello, col Napoli, la Fiorentina (fondata nel 1926, lo stesso anno del Napoli) e la Roma (1927).
Ascarelli radunò i soci dell’Internaples nella sede di Piazza Carità. C’erano Gustavo Zinzaro, Emilio Reale, Davide Pichetti, Adriano Dumontet, Auricchio. Non senza una certa emozione disse: “
Pur grati a coloro che sono stati la nostra matrice, l’importanza del momento e la maggiore dignità cui il nostro sodalizio è chiamato mi suggeriscono un nome nuovo, nuovo e antico come la terra che ci tiene, un nome che racchiude in sé tutto il cuore della città alla quale siamo riconoscenti per averci dato natali, lavoro e ricchezza. Io propongo che l’Internaples da oggi in poi, e per sempre, si chiami Associazione Calcio Napoli”.
LEONE
Era l’1 agosto 1926. Nasceva il Napoli, sotto il segno del leone. Proprio quell’anno la Federcalcio, volendo mettere ordine nei campionati, varò la nuova formula, antesignana della Serie A, cioè la Divisione Nazionale divisa in due gironi di dieci squadre ciascuno: le ultime due di ogni gruppo retrocedevano, le prime tre dei due gironi giocavano un girone finale per l’assegnazione del titolo.
Il cattivo giorno si vide dal mattino: Napoli-Inter 0-3 al debutto nella Divisione Nazionale sul campo dell’Arenaccia. Il Napoli di Giorgio Ascarelli e dell’allenatore-giocatore austriaco Anton Kreutzer in quel campionato 1926-27 (girone B della Divisione Nazionale) non vinse una sola partita in 18 incontri.
Gli azzurri capitarono in un girone di ferro con Juventus, Inter, Genoa, Pro Vercelli e l’Alba Roma dell’amaro ricordo dell’Internaples. Completavano il gruppo il Casale, il Modena, l’Hellas Verona e il Brescia. Il Napoli le prese da tutti cavando appena un pareggio (0-0 col Brescia). Venne mortificato sui campi dell’Inter (9-2) e della Juventus (8-0). I calciatori napoletani, usciti dall’ambito regionale, persero la bussola.
Il Napoli segnò appena sette gol subendone 61. Nella partita persa sul campo del Genoa (4-1) alla terza giornata, Pippone Innocenti segnò il primo gol della storia azzurra. Ghisi segnò alla Pro Vercelli (1-4). Sallustro, primo gol in maglia azzurra, e Kreutzer fecero centro a Milano nel 2-9 con l’Inter. Ghisi segnò ancora contro l’Alba Roma in trasferta (2-5) e Kreutzer realizzò un rigore. Il settimo gol venne da un’autorete del bresciano Vailati.
IL CIUCCIO
Fu in quell’anno che nacque “
il ciuccio”. Di fronte ai ripetuti rovesci della squadra, nella redazione del foglio umoristico “
Vaco ‘e pressa” Raffaele Riano smise di fumare ed esclamò: “
Sta squadra nosta me pare ‘o ciuccio ‘e fichelle: trentatre piaghe e ‘a coda fracida”. Amara autoironia cui il giornale di Ciccio Bufi e Beniamino Degni dedicò un disegno significativo che raffigurava il Napoli come un asino. Così nacque il Ciuccio.
La squadra si riprese nella Coppa Coni, torneo di consolazione fra le formazioni escluse dal girone finale per l’assegnazione del titolo. Il Napoli vinse sul campo dell’Alba Roma (2-1), batté il Livorno (1-0), perse disastrosamente ad Alessandria (1-9), piegò l’Andrea Doria (2-1), pareggiò a Brescia (0-0) e con l’Alba Roma all’Arenaccia (1-1), perse con l’Alessandria (1-2) anche nel match casalingo. Alla fine, gli azzurri si piazzarono terzi.
Prima della vittoria sul campo dell’Alba, Kreutzer passando da una sconfitta all’altra aveva detto: “
Se Napoli vincerà una partita, io tornare a piedi a Vienna”. Mantenne la parola e nessuno lo vide più. La squadra tornò da Roma in treno senza l’allenatore.
RIPESCAGGIO
Ascarelli, intanto, per i rovesci in campionato e prima che il torneo finisse, s’era dimesso, sostituito alla guida della società da un gruppo di cinque dirigenti: Reale, Coppola, Zinzaro, Elia e Pichetti.
Quindi divenne presidente il federale di Napoli Nicola Sansanelli con Reale e Zinzaro vice. Il cavaliere Reale chiamò Bino Shasa che conosceva bene dai tempi dell’Internazionale. Lo assunse per le ultime partite della Coppa Coni. Fu una scelta infelice perché il nuovo tecnico spostò Sallustro dall’attacco al centro della mediana. Un non-senso perché Attila era nato attaccante.
Tornando al campionato, l’ultimo posto nella classifica del girone A della Divisione Nazionale significava per il Napoli la retrocessione. La squadra azzurra fu salvata dalla decisione della Federcalcio che ripescò le quattro formazioni retrocesse (due per girone) per inserirle nel campionato successivo in cui i due gironi furono allargati da dieci a undici club ciascuno.
È certo che le retrocessioni delle due squadre di Roma (Alba e Fortitudo) e del Napoli suggerirono l’opportunità di non escludere la presenza delle due grandi città dal campionato. Nel torneo successivo debuttò la Roma nata dalla fusione dell’Alba, della Fortitudo e della Roma.
Non andò male al Napoli la seconda stagione in Divisione Nazionale (1927-28) inserito nel girone A con Torino, Genoa, Milan e Pro Vercelli tra le formazioni più forti.
Fu assunto un nuovo tecnico, l’austriaco Rolf Steiger, e la squadra venne rinforzata con sei nuovi elementi: le mezz’ali Tosini e Costa provenienti dall’Alessandria, il mediano Zoccola dal Bari, Gariglio II e Innocenti II dal Livorno, il biondo Cassese dalla Bagnolese, il terzino del Palermo Giuseppe Pirandello acquistato per 800mila lire. Giocò due campionati nel Napoli prima di morire, nel 1929, per una iniezione endovenosa. Pienamente disponibile, finito il servizio militare, il centravanti Pino Ghisi. In porta c’era Pelvi, soprannominato “la scimmia”. In società una eterna maretta.
TIFOSI
Lo squillante 4-0 rifilato alla Reggiana, nella partita d’esordio all’Arenaccia, risvegliò entusiasmi sopiti. Il tifo si arricchì dei primi personaggi eccellenti. Segnalati un Corradini, munito di tricche-ballacche, e un pacioccone Molinari, provvisto di trombone.
Nonostante i quattro gol, la critica sempre pungente (con quello che era successo l’anno prima!) sottolineò “le esibizioni individuali, i rilassamenti accidiosi, il gioco alla deriva dopo la conquista netta della vittoria”.
Un giornale scrisse: “
Un’idea più completa sulla forza realizzatrice della prima linea l’avremmo avuta se i giocatori avessero tirato senza soste tutto intero il secondo tempo, tuttavia non s’è visto il collegatore autorevole, il condottiero della prima linea”.
I giocatori non dovettero prenderla bene. Fatto sta che la brillante squadra dell’esordio si liquefece immediatamente consegnandosi a tre sonore sconfitte consecutive: 1-5 sul campo del Milan, 0-5 su quello della Cremonese, 0-4 col Brescia all’Arenaccia.
Crisi in società, dimissioni e conduzione affidata a Zinzaro con la qualifica di commissario straordinario. Licenziato Steiger, fu nominata una commissione tecnica composta dai giornalisti Felice Scandone e Mario Argento affiancati da Gianni Terrile, un ex calciatore, giornalista e radiocronista, genovese di nascita ma napoletano d’adozione.
A questi si aggiunse successivamente Frank Molnar, un tecnico ungherese, mentre in società un nuovo rivolgimento portava Reale alla presidenza, Zinzaro e De Rosa alla vicepresidenza.
Fra alti e bassi, e due sonore “
scoppole” fuori casa con l’Alessandria (1-11) e col Torino dello strabiliante trio d’attacco Baloncieri-Libonatti-Rosetti (0-11), il Napoli concluse la stagione al terzultimo posto confermando la permanenza nella Divisione Nazionale. Fu decisiva una serie finale di cinque partite con tre vittorie e due pareggi.
La stagione 1928-29 si presentò decisiva. La Federcalcio aveva messo a punto il girone unico per l’anno successivo, stagione 1929-30. Dai due gironi dell’ultima Divisione Nazionale le prime otto di ciascun gruppo sarebbero confluite nella nuova serie A, le ultime otto erano destinate a formare il campionato di serie B.
BATOSTE
Nuovo presidente del Napoli divenne l’onorevole Giovanni Maresca di Serracapriola, l’ex attaccante dell’Internazionale. Il Napoli azzeccò un grande acquisto: il vercellese Carlo Buscaglia proveniente dal Casale, giocatore inesauribile, soprannominato “
motorino”, capace di coprire tutte le zone del campo e anche goleador.
In più vestirono la maglia azzurra il nuovo portiere Archimede Valeriani reggiano preso dal Palermo, il terzino Scacchetti dal Modena, il centromediano Adamo Roggia dal Novara e l’ala Camillo Fenili dalla Lazio, magro ma velocissimo. Allenatore l’austriaco Otto Fischer.
Obiettivo dichiarato il settimo posto, l’ultimo utile per entrare nel girone unico dell’anno dopo. Il Napoli si trasferì a giocare sul campo dell’Ilva.
Dopo un inizio incoraggiante (7-2 alla Fiorentina con tre gol di Sallustro), una serie di risultati avversi minacciò di compromettere l’obiettivo del Napoli. Pesanti le batoste rimediate sui campi della Reggiana (2-8) e dell’Ambrosiana (1-8, tre gol di Meazza). Finirono all’ottavo e nono posto a pari punti il Napoli e la Lazio. Era necessario lo spareggio per designare quale delle due squadre sarebbe rimasta in serie A.
SALVATAGGIO
Il 23 giugno1929, Napoli e Lazio si giocarono a Milano il loro destino. Una folla di tifosi si riunì in piazza Trieste e Trento, sotto i balconi de “
Il Mezzogiorno Sportivo” dai quali, durante la partita, si affacciava il giornalista Felice Scandone che urlando leggeva alla folla i dispacci sul match che un fattorino gli recapitava prendendoli dalla cabina degli stenografi a Michele Buonanno che degli stenografi era il capo.
Urla di giubilo si alzarono nella piazza quando Innocenti II e Sallustro rimediarono al vantaggio laziale portando il Napoli avanti. Sembrava fatta ma, a pochi minuti dalla fine, Carlo Cevenini, soprannominato ”
il carambolista”, quinto e ultimo dei fratelli milanesi Cevenini, tutti calciatori, pareggiò. Lo spareggio era da rifare e venne fissata una nuova sede, Padova.
Intanto, nel Napoli, era tornato Giorgio Ascarelli che seppe parlare al presidente della Federcalcio Leandro Arpinati, ex ferroviere e gerarca fascista, romagnolo. Potevano mai essere escluse dalla nuova serie A una squadra della capitale e una della più grande città del Mezzogiorno?
Al quesito imbarazzante Arpinati non oppose una temuta e inopportuna rigidità. Oltretutto, per motivi patriottici, bisognava salvare, nell’altro girone, la Triestina classificatasi al nono posto.
Sanatoria patriottica per tutti. Il primo girone unico della Serie A, previsto a sedici squadre (le prime otto dei due gironi della Divisione Nazionale), fu portato a 18 squadre con l’ammissione di Triestina, Lazio e Napoli. Non fu necessario, per queste ultime due, ricorrere al secondo spareggio.
ASCARELLI
Il ripescaggio del Napoli per l’iscrizione al primo campionato di serie A (1929-30), nella formula tutt’ora vigente, fu ottenuto da Ascarelli anche con due impegni che prese con Arpinati, il presidente federale. Avrebbe attrezzato un Napoli competitivo e costruito un nuovo stadio. Tenne fede agli impegni.
Giorgio Ascarelli, napoletano del quartiere Pendino, di origini ebraiche, era nato nel 1894. Uomo minuto, gentile, di poche parole, la fronte alta per una incipiente calvizie.
Diventato un facoltoso imprenditore nel ramo tessile, con ditta al corso Umberto e una filiale a Busto Arsizio, studioso di pittura e amante della buona musica incoraggiò e aiutò, da autentico mecenate, molti pittori e finanziò la Società dei concerti.
Era entrato a 18 anni tra i soci dell’Internazionale, presidente Emilio Reale. Tre anni dopo, fu tra i soci fondatori del Circolo Canottieri Napoli. Nel 1922, a 28 anni, entrò nel Consiglio direttivo dell’Internaples, diventandone poi il presidente e segnalandosi per gli ingaggi di Carcano e Ferrari.
Fondata l’Associazione Calcio Napoli e divenutone presidente a 35 anni, investì mezzo milione di lire per potenziare la squadra così come s’era impegnato con Arpinati. Ingaggiò l’allenatore Garbutt e fece sei acquisti: il portiere Cavanna della Pro Vercelli, il terzino Vincenzi del Torino e le mezzali Vojak della Juventus e Mihalic della Fiumana.
Dette immediatamente inizio alla costruzione del nuovo stadio al rione Luzzatti, un’area industriale a oriente dalla città, facendo prosciugare un terreno acquitrinoso. I lavori cominciarono nell’agosto del 1929. Lo stadio per diecimila posti, con tribuna in legno coperta, fu costruito in sette mesi.
Ascarelli gli dette il nome di
Stadio Vesuvio. Fu pronto per l’ultima partita del girone d’andata contro la Triestina (16 febbraio 1930, vittoria degli azzurri per 4-1) e venne inaugurato ufficialmente la domenica successiva, 23 febbraio, in occasione della gara con la Juve (2-2, doppietta di Buscaglia che rimontò nella ripresa i gol di Munerati e Orsi).
Il Napoli concluse il campionato al quinto posto dietro Ambrosiana, Genova, Juventus e Torino entrando nell’èlite del calcio nazionale. Ascarelli aveva mantenuto le promesse: grande squadra e stadio nuovo.
La sua presidenza si interruppe dopo solo sei mesi, il 12 marzo 1930, quando era appena iniziato il girone di ritorno. Fu stroncato, a 36 anni, da una peritonite perforante. Non poté vedere tutto intero il frutto del suo lavoro.
GARBUTT
Ascarelli e Garbutt, il primo grande presidente e il primo grande allenatore del Napoli, composero l’accoppiata che creò lo squadrone degli anni Trenta.
William “
Willy” Garbutt, inglese di Stockport, cittadina a poca distanza da Manchester, aveva 46 anni. Di professione artigliere di Sua Maestà Britannica, rottosi un ginocchio dopo avere giocato per nove anni ala destra nella prestigiosa squadra londinese dell’Arsenal, era venuto in Italia ad allenare il Genoa portandolo a vincere tre scudetti. Passato alla guida della Roma, vi rimase due anni prima di essere attratto da Ascarelli.
Garbutt, occhi azzurri su un volto bruno, si presentò con uno dei suoi cappelli scuri di feltro, la pipa alla bocca e altre due di riserva nel taschino. Radunò la squadra e disse chiaro e tondo nel suo italiano con accento inglese: “
Per fare una grande squadra ci vogliono grandi calciatori. Questi, quando mescolano vigore atletico e qualità tecniche, diventano fuoriclasse. Non sempre però molti fuoriclasse formano una grande squadra. Perciò, se tra voi c’è qualche fuoriclasse, lo sopporterò e punterò sui grandi giocatori, cioè su quelli di voi che hanno innanzi tutto grande coraggio, grande cuore e grande voglia di battersi. Chi non ha queste virtù può salutare e andarsene. Quelli che intendono restare verranno fra dieci minuti nella mia stanza perché voglio conoscervi uno per uno”.
I sei nuovi acquisti si aggiunsero a un gruppo di giocatori tra i quali si distinguevano il terzino Paulo Innocenti, nato a Rio Grande do Sul, Brasile, da genitori italiani, soprannominato Pippone per il grande naso “
a pippa”, l’ala Carlo Buscaglia, il bergamasco Camillo Fenilli, ala sinistra, e Attila Sallustro autentico talento di 21 anni.
Garbutt rivoluzionò l’intero metodo di allenamento. Piantò una serie di paletti sul terreno di gioco che i giocatori dovevano superare a zig-zag palla al piede per migliorare il dribbling. Appese il pallone a una forca tirandolo sempre più su perché lo colpissero di testa saltando sempre più in alto. Costrinse quelli che usavano un solo piede per calciare a tenere scalzo il piede “
buono” usando la scarpetta nell’altro e con questo dovevano colpire ripetutamente un pallone pesante.
Chi sbagliava in allenamento doveva offrire da bere a tutti. Su alcuni quaderni prendeva appunti fittissimi delle qualità e dei difetti di ogni giocatore oltre che di tattiche e di schemi. Ai giocatori concedeva poco tempo libero e, al mattino, li portava a fare lunghe passeggiate, spesso nel bosco di Capodimonte per ossigenarsi. Durante quelle passeggiate si informava della vita di ognuno fuori dal campo.
Rimase sei anni alla guida del Napoli cogliendo due terzi posti. Quando smise con la squadra azzurra, Garbutt lasciò Napoli con le lacrime agli occhi andando ad allenare in Spagna il Bilbao. Tornò nel 1936 e allenò il Milan. Ma, con l’entrata dell’Italia in guerra, venne internato in un campo di concentramento.
Finita la guerra, il Genoa non aveva dimenticato l’allenatore dei grandi successi, che i tifosi del Grifone chiamavano “
Pipetta”, e offrì a Garbutt di tornare ad allenare la squadra rossoblu. Sul punto di tornare sulla panchina del Napoli, che gli fece un’offerta, Garbutt si ruppe un femore scendendo da un tram a Genova. Decise allora di rientrare in Inghilterra dove morì a 81 anni, nel 1964.