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Recensioni
Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarq
di Luigi Alviggi
Nato in Westfalia nel 1898 in una umile famiglia e tornato gravemente ferito dalla Prima Guerra Mondiale (fronte occidentale), Remarque fu sempre un convinto antimilitarista. Nel tragico mondo odierno, travagliato da guerre, attentati terroristici, rappresaglie violente d’ogni tipo, ragazzini in giro col coltello in tasca, toni offensivi e minacciosi nei discorsi di troppi leader indegni del vertice che si trovano a occupare, il suo messaggio immortale - in originale “Im Westen nichs Neues” (1929) - torna a risuonare, ed è ben degno di una rilettura meditata che possa indurre a qualche riflessione più sensata nell’interesse di tutti noi, ostaggi di questo XXI secolo che, di sicuro, NON sta crescendo nel migliore dei modi! Questo libro ebbe subito un successo enorme (al tempo milioni di copie vendute!), e da questo lavoro nel ’37 fu tratto l’omonimo film divenuto poi un “classico”. Già nel ’39 Remarque fu però costretto a emigrare negli USA. Tutta la sua opera guarderà sempre ai nefasti effetti di un’umanità sconvolta dalle guerre. Con “Tempo di vivere, tempo di morire” (Zeit zu leben und Zeit zu sterben) del ’54 tratterà anche degli immani disastri del secondo conflitto mondiale, perle infamanti del quale furono le due bombe atomiche sganciate a inizio agosto ’45 sulle città di Hiroshima e Nagasaki in un Giappone oramai allo stremo e sull’orlo della resa totale! Esplodendo, provocarono SUBITO decine di migliaia di morti e, in seguito, tantissimi altri (si stima in tutto almeno un paio di centinaia di migliaia!). Anche questo libro fu tradotto in film e, durante la sua lavorazione, l’Autore conoscerà l’attrice Paulette Goddard (USA, 1910 – 1990) che sposerà nel ’58. Lui finirà i suoi giorni in Svizzera nel 1970.

Remarque rispondendo alle domande di un giornalista italiano, nel settembre 1963, ha dichiarato: «Oggi nel mondo si sono aperte enormi frontiere di conoscenza scientifica, ma gli orizzonti della responsabilità morale sono sempre molto limitati. L’uomo come tale è sempre quello di duemila anni fa, con la sua imbecillità, la sua crudeltà, il suo egotismo. Se un uomo fosse stato in galera trent’anni, uscendo oggi non riconoscerebbe il mondo sensibile: i suoi simili però non li troverebbe cambiati. Per tanto tempo la democrazia nel mondo è stata ben poca: eppure oggi che ce n’è tanta, la responsabilità più grave, quella che può compromettere le sorti dell’intera specie umana e portare alla distruzione to-tale, è affidata solo a cinque o sei persone».

Il teatro più tetro delle “vecchie” guerre è stato senza dubbio la prima linea, racchiusa in una trincea mai perfetta sia dal punto di vista della protezione che dell’offesa, ed è lì che l’Autore ci conduce con la sua meticolosa arte descrittiva di situazioni e risvolti sempre al limite di perdita della vita da parte degli sventurati che vi sono confinati. Leggendo Remarque - un soldato come un altro, Paolo nel libro - entriamo nella realtà della vita di trincea e viviamo i tristi giorni di stenti, di fame, di sofferenza per tutti e per ciascuno. I più “fortunati”, al limite, potrebbero considerarsi quelli che, per disgrazia, mettono fine al tutto cadendo lungo la traiettoria di un proiettile o di una scheggia di bomba, inevitabili specie quando si è costretti a uscire dalla trincea che, in forma precaria, qualche protezione comunque l’assicura. Lasciarci la pelle è l’unico modo per sottrarsi al ciclo di inevitabili sofferenze protratte che la sventurata vita quotidiana riserva a ciascun misero combattente.

Kantorek è il docente di ginnastica di un gruppo di studenti tedeschi diciottenni quando i cannoni della Grande Guerra iniziano a echeggiare nelle tranquille, fin’allora, valli d’Europa. Egli dovrebbe rappresentare per ciascuno di loro la guida all’ingresso nell’età adulta, al lavoro, allo sviluppo mentale, per porlo in condizione di saper affrontare le cento sfide del proprio domani. Nelle ore di lezione invece li indottrina, con roboanti parole, sui pericoli per la patria, sulla nobiltà di poter servire la nazione in cui loro e i loro avi hanno potuto vivere liberamente, tanto da riuscire (i giovani sono sempre molto vulnerabili!) infine a guidarli tutti, condotti da lui, ad arruolarsi come volontari. Solo quando giunti al fronte i ragazzi inizieranno a capire l’imbroglio terribile di cui sono rimasti vittime. Il terrore della morte pian piano l’avrà vinta sul presupposto onore di poter servire la Patria in pericolo. Da questo “risveglio” nessuno potrà salvarli, e l’effetto maggiore che ciascuno vedrà accadere nel suo intimo - nei lunghi giorni di guerra e di trincea, senza possibilità di rimedio – sarà il mutamento dei sogni, divenuti del tutto inattendibili per una gioventù privata dei lati positivi propri della “MIGLIORE” età della vita. Non si vede alcuna possibilità di riscattarli o redimerli. Sarà la prima gigantesca delusione conosciuta nella loro breve esistenza che infrange, uno dopo l’altro, la forza delle speranze nel futuro, delle illusioni, della raggiungibilità di un’aspirazione, ed ecco quindi che la “gioventù” non potrà PIÙ DURARE per l’assenza di alcun soffio rigenerante e non può che trasformarsi in una orrenda “vecchiaia precoce”, infida e maledetta!!! Peggio di una pallottola diritta al cuore!

La vita però, qualunque sia la situazione reale, riserva sempre qualche smussatura. La squadra di ex scolari protagonista del racconto ha la fortuna di avere un caposquadra, Katzinski, che ha il magico dono di scovare cibo e generi di prima necessità ovunque approdi, anche nel paese più disastrato e deserto, e il merito di condividere i suoi “grandi” successi con tutti i ragazzi del drappello che hanno per lui una venerazione paterna. Allontana perlomeno la fame, non il pericolo maggiore ma quello più assillante che, troppo spesso, impedisce anche di addormentarsi la sera al milite esausto per le accanite fatiche superate nella giornata.

Poi c’è Kemmerich in infermeria, molto malridotto e al quale hanno rubato l’orologio. Paolo e un altro compagno lo vanno a trovare e questi si innamora degli stivali sotto il letto che sarebbero la salvezza per i suoi piedi martoriati, ma non ha il coraggio di prenderli: il ferito non ha più una gamba e non lo sa. I sanitari e quelli intorno gli promettono guarigione a breve, cosa che non sarà, e solo allora i sospirati stivali potranno cambiare padrone... C’è da notare che la vita in trincea amplifica valore ed effetto di qualunque gesto amicale giunga, inatteso e improvviso, da un compagno d'armi, fosse anche il semplice dono di una sigaretta o l’aiuto per una difficoltà balzando fuori dal “fosso” nell’attacco, oppure in una fulminea ritirata che, magari, fa inciampare in un sasso, caduta sicura e spesso letale, se non ci fosse un braccio vicino a sostenerti… L’unica “scuola” possibile è quella degli anziani che si prodigano a spiegare agli ultimi arrivati le migliori mosse protettive da fare, insegnando anche a prevedere le traiettorie dei “regali” aerei in arrivo da parte dello schieramento nemico!

C’è però anche l’immancabile Himmelstoss (precursore dell’infame Himmler?), figlio di una gran “buonadonna” che, infatuato dal piccolo grado di cui è investito, una sera fa rifare per ben 14 volte la branda al nostro povero Autore, oltre a decine di nefandezze anche maggiori contro gli sventurati componenti del drappello affidatogli. È solo l’esponente di una tipologia di gente infame (e quanti ne esistono!) infettati nell’animo e nella mente, ai quali la piccola autorità capitata per caso sul capo fa dare di volta il cervello facendoli cedere ad atrocità verso i sottoposti, distruttive per il poco rimasto integro nella mente di un giovane inesperto della vita. Gravissimo male diffuso e generalizzato in guerra lungo tutta la gerarchia militare, dal soldato al generale, ai quali viene per così dire regalata una seconda vita con maggiori potenzialità nocive, e per sovrappiù proprio in un periodo funesto. Il problema al fondo è che persone che occupano un posto irrilevante nella normale gerarchia sociale, una volta indossata una divisa e quindi investiti di un’autorità mai provata prima, vengono colpiti da una demenza speciale, un senso di potere personale ingiustificato e assurdo, e dunque rigettano in toto l’abito mentale precedente per rivestirsi di un maligno abito nuovo nel quale vivono da soggetti assolutamente indegni…

Kropp invece è un pensatore. Le dichiarazioni di guerra, egli propone, dovrebbero essere una specie di festa popolare, con biglietti d’ingresso e banda, come per i combattimenti dei tori. Poi, nell’arena, i ministri e i generali dei due stati avversari, in calzoncini da bagno e armati di manganello, si azzuffano. Vince il paese di quello che caccia l’altro sotto. Sarebbe assai più semplice e meglio di adesso, che s’ammazzano tra loro persone che non c’entrano.

Conosciamo dunque, attraverso piccoli discorsi e pensieri, tutti i personaggi del romanzo, giovanissimi che avrebbero dovuto occuparsi di ben altro, aprirsi alle prime simpatie personali, magari – per i più fortunati – accostarsi al primo amore e, invece, già all’aprirsi mattutino degli occhi si pongono l’immancabile fatale domanda: “Stasera sarò ancora sano e salvo nel mio letto?”. Ed ecco una delle immagini terribili dal fronte:

“I riflettori cominciano ad esplorare il cielo nero. Van¬no e vengono su di esso come regoli giganteschi di luce, più sottili alle estremità. Uno sta fermo ad un tratto e trema solo un poco. Subito un altro si leva accanto ad esso, le loro luci si incrociano; ed ecco in mezzo a loro un piccolo insetto nero che cerca di sfuggire: è l’aviatore: incerto, accecato, e barcolla.”

Ma sono i pensieri quelli che più tormentano giovani troppo presto scagliati in una delle situazioni di vita più difficile da gestire:

“E il silenzio fa sì che le immagini del passato non suscitino desideri ma tristezza, una enorme sconsolata malinconia. Quelle cose care furono, ma non torneranno mai più. Sono passate, sono un mondo diverso, perduto per sempre. Finché eravamo in caserma destavano in noi una selvaggia e ribelle bramosia, perché erano ancora congiunte a noi, ci appartenevano e noi appartenevamo ad esse, quantunque ne fossimo separati. La loro immagine sorgeva allora con le canzoni, che cantavamo marciando alle esercitazioni, verso la radura, presso il margine delle foreste profìlantisi nere sul rosso dell’aurora; erano, allora, un ricordo veemente in noi, e da noi stessi evocato. Ma qui in trincea quel mondo si è perduto. Il ricordo non sorge più; noi siamo morti, ed esso ci appare lontano all’orizzonte come un fantasma, come un enigmatico riflesso, che ci tormenta e che temiamo e che amiamo senza speranza. Forte senza dubbio, come la nostra bramosia, ma irrealizzabile, e noi lo sappiamo. Un’aspirazione vana, come sarebbe quella di diventar generale.”

Va riconosciuta a Remarque una prosa di capacità rappresentativa perfetta - anche il lettore finisce per sentirsi un soldato in angoscia per il possibile destino nell’istante seguente di tempo - specie nelle descrizioni più minacciose sotto lo scrosciare di decine di bombe lanciate alla rinfusa dove i nemici vedono che ci sono uomini, bestie, o equipaggiamenti. A ogni situazione descritta ci pare di essere al fianco degli sventurati di turno che ignorano persino in quale direzione dover scappare per scampare, se fortunati, al “diluvio di guerra” (bombe e gas) che si rovescia su di loro. Diventiamo tutti noi soldati immersi nel mezzo di pericoli mortali che piombano addosso da ogni parte. La narrazione è densa di episodi fuori dal comune, taluni davvero insoliti…

Ma il libro non è solo trincea. Negli intervalli di riposo leggiamo i dialoghi tra amici di vecchia data che spaziano su premesse sociali, fautori e contrari alla guerra, vantaggi e conseguenze per le nazioni. C’è poi l’avventura amorosa di una notte capitata per caso, c’è la licenza a casa con le gioie familiari e gli inconvenienti di ritrovare, con la mente del tutto mutata, vecchie conoscenze, ci sono le tante avversità provate in prima persona che hanno mutato ogni briciola del proprio sé anche al solo “rivedere” la vita di PRIMA! C’è il dolore acuto di Paolo per la madre molto malata, e c’è una vera e forte sofferenza nel riabbracciare i familiari per l’incertezza del domani loro e proprio.

Erna porta fuori i viveri. Allora ad un tratto la mamma mi afferra le mani e domanda con voce strozzata: «È terribile, vero, laggiù, Paolo?».

Mamma, che cosa dovrei risponderti? Non capirai, non potrai mai capire: non devi capire mai. Se è terribile, domandi tu, mamma. Io scuoto la testa e rispondo: «No, mamma, non tanto. Siamo molti insieme, si sopporta meglio...».

«Sì, ma Enrico Bredemeyer che è stato qui poco fa, raccontava che adesso è terribile laggiù, per i gas e per tutto il resto...».

È mia madre che parla cosi: dice «i gas e tutto il resto». Non sa di che cosa parla; ha soltanto paura per me. Dovrei forse raccontarle che abbiamo trovato un giorno tre trincee di nemici, irrigiditi nelle loro attitudini, come colpiti dal fulmine? Sui parapetti, nei ricoveri, gli uomini erano rimasti cosi come si trovavano, ritti o giacenti, coi volti bluastri, morti.

«Oh Dio, mamma, se stai a badare a tutto quello che si dice! Bredemeyer parla così perché ha la lingua in bocca. Vedi bene, sono sano e salvo, e ingrassato…».

Nella tremante ansia di mia madre ritrovo la mia calma. Ormai posso andare e venire e parlare e rispondere, senza paura di dovermi appoggiare alla parete, sentendo a un tratto tutte le cose fatte molli come la gomma e le mie vene aride come l’esca.

Certo oggi nelle guerre è tutto cambiato, ma l’UOMO (e la DONNA) sono rimasti gli STESSI! Le paure, i timori non possono mutare insieme con gli “aggeggi” di guerra di ultima generazione (!), e questa sola constatazione dovrebbe BANDIRE PER SEMPRE DALLA FACCIA DELLA TERRA ogni attentato alla vita di un qualsiasi essere umano DA PARTE DI un suo simile!!!

Questo è un GRANDE libro anche se non può essere suggerito indistintamente a ogni tipo di lettore. Alcune sue pagine sono di una crudezza di eventi che potrebbe non essere smaltita facilmente da un soggetto di forte impressionabilità. Ma la vera verità fa sempre male in ogni sua espressione totale, e non ci sono eccezioni alcune, specie in tempi di guerra!

La prima linea è una specie di gabbia in cui si soffre l’attesa nervosa di ciò che sta per avvenire.

Per puro caso posso esser colpito, per puro caso rimanere in vita. In un ricovero a prova di bomba posso essere schiacciato come un topo e su terreno scoperto posso resistere incolume a dieci ore di fuoco tambureggiante. Ciascuno di noi rimane in vita soltanto in grazia di mille casi; perciò il soldato crede e fida nel caso.

“Estate millenovecentodiciotto: mai la vita di trincea è stata più amara e orribile che in queste ore di fuoco, quando le pallide facce di combattenti giacciono sulla mota e le mani si avvinghiano nella spasmo-dica invocazione: «Non ora! non ora! Non ora, proprio all’ultimo istante…».

Erich Maria REMARQUE: Niente di nuovo sul fronte occidentale
trad. Stefano Jacini
NERI POZZA, 2016 – pp. 248 - € 11,40




7/10/2024
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