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Cultura
I peccati di Rossini
di Adriano Cisternino
L'appuntamento era per lunedì 30 marzo: “I peccati di Rossini”, Istituto per gli studi filosofici a Palazzo Serra di Cassano, salone degli specchi, ore 20, penultimo concerto del Festival di musica da Camera organizzato dal Centro Italiano di Musica da Camera presieduto da Riccardo Scognamiglio.

Naturalmente parliamo di uno dei tanti appuntamenti rimasti vittime del coronavirus che si è abbattuto come una mannaia su cinema, teatri, sale da concerti, etc. etc. “I peccati di Rossini”, programmati con l'introduzione di Sergio Ragni, la voce del soprano Cinzia Forte, il pianoforte di Marco Scolastra e il racconto di Sandro Cappelletto, riemergeranno, forse, quando potremo vivere tempi migliori, quando anche tutti noi potremo riemergere da questi “arresti domiciliari” ai quali siamo stati condannati per peccati sicuramente diversi da quelli rossiniani.

Niente concerto, dunque, ma se non li possiamo ascoltare “I peccati di Rossini”, li possiamo almeno raccontare via mail, nel pieno rispetto dei dpcm 1,2 e 3 e di quelli che ancora verranno a condizionare ulteriormente la nostra vita quotidiana.

Dunque, ligi e rispettosi delle disposizioni dettate dalle istituzioni, proviamo ad anticipare i peccati di Rossini ed altro ancora, trattandosi di un personaggio che, oltretutto, ha trascorso a Napoli ben sette intensi anni della sua vita (1815-1822) nella piena dimensione professionale ed anche oltre.

Solo due anni fa, infatti, Napoli gli ha dedicato una mostra per celebrare i 150 anni dalla morte (1868-2018), con il determinante contributo di Sergio Ragni, rossinologo di fama mondiale, la cui casa alle pendici del Vomero - ci dicono - è un museo permanente dedicato al cigno pesarese.

E allora i peccati di Rossini ce li siamo fatti raccontare - e cerchiamo di farvene qui una beve sintesi - da Sandro Cappelletto, giornalista, scrittore e storico della musica, autore di numerosi libri, l'ultimo “Mozart, scene dai viaggi in Italia” (Il Saggiatore, pagg.350, euro 28) con una inevitabile sezione sulla permanenza napoletana del genio di Salisburgo.

C'è un Rossini autore di opere - ne compone quaranta in appena 19 anni, fino all'ultima il “Guglielmo Tell” nel 1829, ci ha raccontato Capelletto - e poi c'è un Rossini semisconosciuto che nella sua residenza parigina di Passy, ormai ricco e famoso, libero da impegni teatrali ma già malato, ipocondriaco e irrimediabilmente bulimico, compone centinaia di pezzi, raccolti in 15 volumi, noti appunto come “Péchés de vieillesse”, Peccati di vecchiaia, che saranno pubblicati però solo dopo la sua morte.

Dopo il ritiro dalle scene operistiche, dunque, Rossini non si ferma. Ormai è talmente ricco che si concede la libertà di invitare tanta gente alle cene nella sua villa di Passy ad ascoltare i suoi “peccati”. Ma lui non si fa vedere, se ne sta al piano superiore. Ricco e famoso, ma ipocondriaco, ormai calvo e sdentato, malato e depresso.

C'è Olympe Pelissier, la sua seconda moglie, che fa gli onori di casa e poi gli racconta com'è andata. Stendhal nella biografia di Rossini scrive che in quei tempi, da Calcutta a Parigi, solo Napoleone era più famoso di lui.

Quei “peccati” però sono gemme musicali, anticipatrici di soluzioni armoniche. E ci sono due episodi particolarmente significativi di quella produzione. Nella “Petite messe solennelle”, Piccola messa solenne, Rossini cita l'ultima cena di Leonardo, ma si sofferma sulla tavola vuota (il cibo, una fissazione!), meravigliosa immagine del suo stato d'animo, della sua paranoia.

E poi c'è l'incontro con Beethoven, il dio della musica, che durante il suo trionfale soggiorno a Vienna mortifica lui e le sue opere buffe, forse anche per invidia del suo successo. A distanza di quasi 40 anni Rossini mostra di non aver dimenticato quella umiliazione.

Insomma, di peccati Rossini ne avrà fatti tanti, ma quelli musicali sono di grande interesse come tutta la sua produzione.

Di peccati ne ha fatti anche a Napoli dove tra l'altro conobbe e poi sposò Isabella Colbran, cantante spagnola, sua prima moglie. Giunto qui a 23 anni, ingaggiato da Domenico Barbaja, l'impresario del San Carlo, si lasciò sedurre dal movimento culturale della città, ma anche da cibo e divertimenti di ogni tipo.

Si narra che, stufo di attendere la composizione della sinfonia dell'Otello, Barbaja una sera lo chiuse a chiave nella sua stanza e, sordo alle sue proteste, lo liberò soltanto dopo che il musicista ebbe completato l'opera. Verità o leggenda metropolitana? Chissà.

Ma non lo dite a De Luca...

 
25/3/2020
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